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Walter Volpatto, il colorist dalla Rai a Christopher Nolan: “Fare Star Wars è una passeggiata”


Nato a Torino e arrivato nella serie A di Hollywood, ha curato la color di quelli che, semplicemente, sono film da Oscar: Green Book, Star Wars, The Hateful Eight, Dunkirk, Interstellar. La storia di Walter Volpatto coincide con la nascita della post-produzione digitale e di una figura, quella del colorist, nata letteralmente dall’hardware e maturata in estro artistico, fino al punto da aspirare a un riconoscimento ufficiale agli Oscar. Chiara del Zanno lo ha intervistato su questo bel po’ di cose insieme al DOP Davide Manca.

CDZ: Hai lavorato in RAI per dieci anni, poi hai mollato tutto per gli States: un colpo di follia o un colpo di fortuna?

Ho lavorato in RAI a Torino dal 1991 fino al 2000 circa, nel reparto engineering: impianti, strutture, manutenzione, camere. A metà degli anni Novanta i computer, con Internet e i VFX, hanno iniziato a far parte della produzione e io ho iniziato a interessarmi ai visual effects, al compositing, al 3D rendering, al lighting modeling insieme al reparto grafico di Torino. Poi per una serie di vicende nel 2003 sono arrivato negli Stati Uniti come tecnico e ho cominciato a collaborare con i grandi. Per farti capire, per un po’ ho avuto accanto Dan Muscarella, oggi collega e amico, che tra le tante cose è anche il colorist di Titanic. L’ultimo progetto su cui abbiamo lavorato insieme è stato Dunkirk di Christopher Nolan, lui curava la parte di pellicola e io il digitale.

DM: Il girato che ti arriva è sempre così perfetto come lo vediamo noi nei film americani? In Green Book c’è un camera car con tre macchine da presa che riprendono contemporaneamente: livello difficoltà 10. Quanto sta al colorist il risultato finale?

Green Book presentava delle “challenges”. Le riprese sull’auto nelle pianure avevano poco controllo sul sole e sulla meteorologia in generale, Mahershala Ali ha una copertina rossa sulle gambe che crea un rimbalzo di luce sul mento, il suo incarnato scuro da illuminare sul sedile posteriore. Ci ho lavorato parecchio per bilanciare gli shots e rendere l’impressione di un vero viaggio in macchina con una buona soluzione di continuità. Per contrasto, in Star Wars Steve Yedlin, il DOP, ha speso circa dieci anni della sua vita a creare un modello matematico delle stampe: ha una corrispondenza perfetta con ciò che fa con la camera sul set (la LUT l’ha costruita lui!), un budget sostanzioso e gli scenografi e i costumisti migliori al mondo. Mi ricordo di avere guardato uno degli shots della sequenza girata nella sala rossa del trono, poi ho guardato Steve: “Beh, cosa vuoi?”, “Aggiungere un punto di rosso”, ha risposto lui. Okay: click. Quella fotografia è già perfetta. L’unica cosa su cui ho Dovuto lavorare un po’ di più in Star Wars è l’isola in cui Rey va ad allenarsi con la spada laser. È una riserva naturale vicino all’Irlanda, avevano solo due giorni di riprese lì e il sole cambiava un po’ da tutte le parti. Per il resto, fare Star Wars è una passeggiata.

DM: L’incredibile profondità di campo che vedo nei film americani come si ottiene? Le immagini sono così piene.

Probabilmente dalle luci, ce ne è molta di più sui set americani, soprattutto fill and bouncing lights. È quando la fotografia manca e la vuoi, che diventa un visual effect. Nella mia vita ho fatto solo due sky replacement, entrambi in Green Book. In due momenti del film il cielo era troppo grigio e piatto, e Sean mi ha chiesto di metterci mano. Ho preso il cielo da un’immagine precedente del film, l’ho flippato, ho fatto un compositing grezzo e lui ha voluto tenerlo così, senza neanche mandarlo ai VFX.

CDZ: In una vecchia intervista hai dichiarato: “Se lo spettatore vede ciò che noi colorist stiamo facendo, allora ci siamo spinti troppo oltre”. Oggi la color si spinge spesso oltre, quasi verso un’estetica “instagrammabile”. Da cosa dipende?

Quando gli Impressionisti comparvero sulla scena nella Parigi a fine Ottocento volevano usare il colore per rappresentare un’emozione. Il “filtro di Instagram” e alcune delle coloriture che facciamo noi oggi sono molto impressionistiche, non realistiche. Fino a quindici anni fa noi colorist eravamo costretti nella pellicola, Esteticamente era raro trovare colori innaturali. Quando ce ne siamo liberati, però, abbiamo iniziato a sperimentare. Un film come Matrix oggi sarebbe un gioco da ragazzi. All’epoca le giacche nere sul set erano verdi: ecco spiegata la presenza del verde nelle ombre. Ora non avremmo tinto così tanto in fase di stampa. Oltre a quello che qui chiamiamo “daily love”, l’amore per i giornalieri dal quale regista e DOP si distaccano a fatica, c’è anche un nuovo linguaggio visivo dei social media, dove tutti spingono l’immagine con i filtri al di là del ragionevole. Nel linguaggio del colore, se crei un mondo, possono avere senso anche il giallo o il verdone. Il problema è quando il “filtro” è messo a cavolo solo perché l’ho visto sul cellulare.

CDZ: Il dibattito sul riconoscimento artistico dei colorist agli Oscar è molto acceso e tu ne hai preso parte: perché, secondo te, a questo punto della storia è necessario che l’Academy vi premi?

È un problema di prospettiva. L’Academy, di cui sono diventato membro, riconosce solo chi porta un contributo artistico al progetto. Fino all’invenzione della color correction digitale, il color timer in laboratorio non poteva alterare artisticamente il look di un film. Adesso, però, noi lo facciamo. E Aspiriamo a un riconoscimento. Ci rispondono che la nostra coloritura è stabilita del direttore della fotografia. Ok, ma è il regista che chiede una certa fotografia al DOP. Quindi, dove ci fermiamo? The Revenant ha aperto questa scatola dei segreti. Lubezki è un grande cinematographer e non smetterò mai di ribadirlo. Ma quello che vedi nel film non è solo ciò che lui ha ripreso con la camera. Hanno speso quattro mesi in color per lavorare meticolosamente ad ogni shot, i giornalieri sono tutto un altro materiale. Emmanuel Lubezki sostiene di aver girato così sapendo cosa fare poi in color. Va bene, ma, scusate, non è Lubezki ad averci messo le mani. È tutto qui: i direttori della fotografia non vogliono perdere il loro status sulle immagini e riconoscere il contributo artistico dei colorist. Dopo Revenant qualcosa però è cambiato: ora i colorist sono ammessi come membri dell’Academy per il loro contributo artistico.

CDZ: Se già esistesse un premio condiviso fra DOP e colorist, tu per quale film saresti stato candidato?

Difficile da dire. Il film in cui negli ultimi anni il mio input artistico è stato maggiore? Forse Beach Bum (di Harmony Korine, 2019). A un certo punto Harmony mi ha detto: “Fammi vedere qualcosa rispetto al feeling che voglio, ti lascio carta bianca. Ogni shot di questo montaggio voglio che sia come un dipinto, lontano dal flow continuo”. Voleva l’impressionismo maggiore che potevo dargli, allora il mio è stato un apporto molto più artistico di Star Wars o Dunkirk, dove ho lavorato su un raffinatissimo match tecnico tra pellicola e digitale.

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