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"Vultures", il film brasiliano che ha stregato Matt Dillon

Nell’assegnargli il premio per il miglior lungometraggio straniero ai Fabrique du Cinéma Awards lo scorso dicembre, il presidente di giuria Matt Dillon lo ha definito «un film autentico, pieno di talento e realizzato meravigliosamente». Claudio Borrelli (origini italiane, per la precisione calabresi di Diamante) ci risponde via Skype insieme alla moglie e sceneggiatrice del film, Mercedes Gameiro, dalla sua casa appena fuori San Paolo, la metropoli in cui ha ambientato il suo esordio cinematografico. Vultures è una sorta di docufilm che vede protagonista Trinxas, capo di una banda di pixadores, ovvero writers che si arrampicano su edifici molto alti per scrivere i loro nomi lassù, e la sua ragazza Valeria, studentessa di storia dell’arte.

Complimenti Claudio, al primo colpo hai vinto i Fabrique Awards e conquistato Matt Dillon… Riavvolgiamo il nastro, come sei arrivato a Vultures?

Puoi immaginarti, quando Matt Dillon ha detto il mio nome ero incollato di fronte al video con tutta la famiglia ed è stato davvero fantastico, l’avverarsi di un sogno. Per rispondere alla tua domanda: ho studiato cinema a Los Angeles e quando sono tornato in Brasile ho aperto una casa di produzione di commercials – erano gli anni ’90, un periodo piuttosto difficile per girare film qui. Tuttavia fare pubblicità è stata una grande scuola, ho potuto contare su ottimi budget, attrezzature avanzate, attori importanti. Ho girato dappertutto, in Europa, Sudamerica, Stati Uniti e, riscuotendo un buon successo in questo settore, ho ritardato il debutto come regista cinematografico, anche se è quello che ho sempre voluto fare. Ci ho messo molto per realizzare Vultures, la prima idea risale a dieci anni fa, e in questo momento sono in mezzo al guado: sto chiudendo l’attività nei commercials per dedicarmi interamente al cinema.


Vultures racconta di un gruppo di pixadores che si arrampicano su edifici altissimi per lasciare lì la loro firma. È una storia vera?

È una storia ispirata a fatti veri, scritta da Djan Ivson, un vero e proprio idolo per i tagger di San Paolo. Tutti qui conoscono i pixadores, i lori tags ricoprono le mura dell’intera città, ma ho cominciato a interessarmi realmente a loro mentre giravo uno spot per auto: cercavo delle location ed era quasi impossibile trovare dei muri privi di scritte. Quello che colpisce di più sono le lettere che campeggiano su edifici alti anche 30 piani: i pixadores si arrampicano lassù senza alcuna attrezzatura, rischiando ogni volta la vita. Ma poi, conoscendoli da vicino, ho capito quanto è vitale per loro lasciare il proprio segno. Ho scoperto un mondo totalmente differente, con regole proprie, al quale non è stato facile avvicinarmi e ancora più difficile riuscire a coinvolgere nel film.


Quando nasce questo movimento che per qualcuno è arte, per altri – come fai vedere nel film – solo vandalismo?

Le origini risalgono agli anni ’80, con l’esplosione della street art negli USA: fu allora che i writers di San Paolo crearono un loro particolare alfabeto, fatto da “rune” (i pixos) con il quale scrivere nomi propri, frasi, slogan. Col tempo si sono create delle gang, ognuna in competizione per lasciare il suo segno sui muri della città, facendosi odiare dalla maggior parte dei cittadini che li considerano dei teppisti. Solo di recente, grazie anche al successo presso la critica d’arte internazionale, qualcosa sta cambiando nella percezione che la gente ha di loro. Come racconta Vultures, lo spartiacque è stato l’irruzione alla Biennale di San Paolo nel 2008: un gruppo di taggers entrò nel tempio dell’arte contemporanea per disegnare sui muri i pixos. Furono arrestati, ma l’impresa attirò molta l’attenzione anche oltre confine, tanto che furono chiamati a esporre alla Biennale di Berlino [A questo punto si inserisce Mercedes: «Poi ti racconto com’è andata a finire», dice sibillina]. Comunque i pixadores sono contro il sistema, totalmente anarchici: anche se sono poverissimi e vivono nelle favelas i soldi non gli interessano. Per loro conta solo disegnare più in alto possibile per diventare famosi nella loro comunità.


Vultures è anche una storia di incontro-scontro fra due mondi molto diversi: quello della borghese Valeria e quello delle favelas da cui viene Trinxas. I due attori sono molto bravi a renderla credibile. Com’è stato il lavoro di casting?

Gli attori sono tutti non professionisti, sono veri pixadores, tranne Valeria (Bella Camero). Hanno accettato di partecipare al film solo quando hanno saputo che finanziavo io il film e non avevo alle spalle nessuna grande company: del resto era impossibile trovare i finanziamenti, data la cattiva fama del movimento. Per prepararli ho chiamato Fátima Toledo, una coach molto famosa che ha lavorato anche in City of Gods (4 nominations agli Oscar nel 2004), il cui metodo consiste nel non dare lo script agli attori ma nel lasciarli liberi di interpretare il personaggio. Fatima mi raccomandava: “Claudio, dì sempre action ma mai cut!” Ha lavorato con loro per 4 mesi. A un certo punto i ragazzi hanno cominciato a mescolare la loro realtà con la finzione, fino al punto che durante una scena di arresto Gustavo Garcez (che interpreta Trinxas) credeva che lo stessero arrestando davvero e si è messo a urlare e tirare calci furiosi contro la macchina. Non capiva che era finzione, ho dovuto calmarlo e rassicurarlo io. Considera però che durante le riprese, durate 23 giorni, i ragazzi sono stati realmente arrestati sei volte e una volta anche io.


Dicevi che ti stai per dedicare interamente alla fiction: su cosa stai lavorando?

A breve girerò una serie Tv per Rede Globo [la più grande rete televisiva commerciale del Sud America], ma sto lavorando anche allo script per il mio secondo film. Fernando Meirelles, regista di City of Gods, ha visto Vultures, gli è piaciuto e mi ha messo in contato con il suo agente negli USA. Posso dire che sarà una storia totalmente nuova e con un nuovo linguaggio.


Mercedes, com’è andata poi a finire con la Biennale a Berlino?

A Berlino gli organizzatori diedero ai pixadores un’apposita parete bianca all’interno di uno spazio espositivo dentro una chiesa medievale, e loro che fecero? Si rifiutarono di attenersi a quello spazio e, dicendo calmi «non siamo le vostre scimmie», si arrampicarono sui pilastri e cominciarono a scrivere sui muri della chiesa. Ovviamente furono arrestati. Djan, il nostro consulente, che appare brevemente alla fine del film, è diventato famoso e ha esposto in prestigiose gallerie e fondazioni di tutto il mondo, ma quando da Cartier gli hanno dato i barattoli d’inchiostro per disegnare e i soldi del compenso lui ha preso solo i barattoli lasciando lì i soldi, nello sconcerto di tutti i presenti. Anche se provengono da famiglie poverissime (Fátima Toledo mi ha confessato che non aveva mai visto una sofferenza simile, nemmeno nelle favelas di Rio) e sono stati cresciuti solo dalle madri – nelle favelas i padri non esistono – per loro conta solo la libertà. E il loro segno.

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